«Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa …» (2Tm 1, 8b-10)
«… fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. … Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”». (Mt 17, 1-9)
Tre imperativi “esortativi” caratterizzano a mio parere la Parola di questa seconda domenica di quaresima: “vattene”, “alzatevi e non temete”, “soffri con me”.
Nella prima lettura, infatti, Yhwh chiede ad Abramo di lasciare la situazione di “sicura mediocrità” in cui si trova per intraprendere una cammino verso la Terra, la discendenza e la benedizione; beni che gli fa solo intravedere nella speranza e per raggiungere i quali deve percorrere un cammino sconosciuto. Ho definito la situazione di Abramo una “sicura mediocrità”: egli, infatti, si trova in età avanzata, nomade e senza discendenza; i suoi beni (e la “sopravvivenza” del suo ricordo) sono destinati probabilmente al nipote Lot. Una situazione “senza infamia e senza lode” in cui, però, gode di alcune sicurezze. Il Signore lo invita a lasciare queste sicurezze per “osare” fidandosi della promessa. Fondato esclusivamente sulla fiducia, Abramo intraprende il cammino che lo porterà ad attraversare il deserto.
Nel Vangelo anche Gesù chiede ai suoi discepoli di “alzarsi”, di lasciare le mediocri sicurezze in cui li confina la loro paura, per intraprendere con lui il cammino che li porterà ad attraversare il deserto della sofferenza per giungere alla pienezza della vita.
La pericope evangelica di Matteo, infatti, comincia con la indicazione temporale: «sei giorni dopo», con la quale l’evangelista richiama il primo annunzio della passione (Mt 16,21), e si conclude con il riferimento alla resurrezione dai morti. Lo scopo della trasfigurazione, quindi, è fare intravedere ai discepoli, spaventati dalla prospettiva della sofferenza del Maestro, l’esito finale del cammino di sequela cui sono chiamati (Mt 16, 24). Gesù, annunziato dalla Legge e dai Profeti (Mosè ed Elia), fa intravedere ai discepoli la sua glorificazione che sarà pienamente rivelata nella Resurrezione.
Per giungere a questa gloria, però, è necessario passare attraverso la croce accolta per amore. Trovo che sia interessante, a questo riguardo, soffermarci sul “compiacimento” di cui ci parla la “voce dalla nube”. Il riferimento immediato è al “primo canto del Servo del Signore” (Is 42, 1). Penso, però che non sia errato richiamare anche il “quarto canto” in cui si dice che “al Signore è piaciuto (letteralmente: si è compiaciuto) prostrarlo nei dolori” (Is 53, 10). Il compiacimento qui è dovuto alla solidarietà del servo innocente con il popolo colpevole per il quale subisce il castigo; una solidarietà che giunge fino alle estreme conseguenze. Gesù realizza pienamente questa profezia accettando su di se, lui l’unico innocente, tutto il male dell’umanità per mostrarci lo sconfinato amore di Dio per ciascuno di noi.
Ecco il senso dell’ultima esortazione che ho evidenziato all’inizio: Paolo chiede a Timoteo di seguirlo nell’unire le proprie sofferenze apostoliche alla sofferenza d’amore di Gesù per la salvezza dell’umanità.
Anche a noi oggi Gesù dice di alzarci e di non temere; di lasciare le nostre “mediocri sicurezze”, le nostre “mezze misure” che ci fanno dire “fin qui, ma non oltre”, per seguirlo nella follia dell’amore che non si risparmia, che non accetta compromessi. Solo chi prende la sua croce e segue il Maestro nella via dell’amore senza riserve potrà giungere a quella Vita eterna e piena che il Padre ha pensato per noi.
Fra Marco