«Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26-27)
«“Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”» (Mt 13,24-43)
In questa XVI domenica del TO la Parola di Dio, nel presentarci la realtà del Regno dei Cieli, ci parla della indulgenza di Dio e della grandezza che si nasconde nell’apparenza debole e umile.
Chissà quante volte anche noi, dinanzi il male nel mondo, la pensiamo come quei servi frettolosi di sradicare la zizzania: vogliamo “fare giustizia”, eliminare i peccatori dalla faccia della terra. Rimaniamo scandalizzati dalla pazienza del Signore: “Se Dio c’è ed è buono, perché permette certe cose?”
È il Maestro stesso che, presentando il Regno dei Cieli, risponde a questa obbiezione e spiega ai discepoli la parabola del buon grano e della zizzania: il Signore è paziente e misericordioso, non ha fretta di sradicare la “zizzania”, ma il tempo del raccolto verrà ed allora il “buon grano” sarà riposto nel granaio e la zizzania bruciata.
Dinanzi questa parabola sarebbe semplicistico fare distinzioni nette, distinguere in mezzo a noi il “grano” e la “zizzania”; magari mettendoci anche dalla parte del “grano”. La realtà è invece più complessa: in noi spesso convivono il “grano” e la “zizzania”, ciò che “ha piantato” il Signore e ciò che invece ci viene dal “nemico”. Il Signore è paziente e aspetta di vedere i frutti. Sta a noi, però, non lasciare che la zizzania soffochi il buon grano.
Consapevoli, inoltre, della pazienza e misericordia che il Signore usa verso di noi, siamo invitati oggi ad imparare da Lui nel rapportarci con i nostri fratelli e sorelle. Vorrei concludere con un pensiero di un autore spirituale:
«L'indulgenza è finissima espressione di carità, perché è insieme comprensione, discrezione, pazienza e fiducia. Con essa e con essa soltanto - si supera un grave ostacolo che normalmente si frappone tra noi e il nostro prossimo. A renderci infatti più difficile l'esercizio della carità, di solito sono i difetti che noi troviamo negli altri. E noi siamo facilmente portati a vederli, e a vederli molto più dei nostri, e quindi siamo sempre pronti alla critica. Spontaneamente non si supera questo ostacolo. Bisogna quindi supplire volutamente a ciò che manca nella persona difettosa, con qualcosa che permetta alle anime di incontrarsi.
Questo qualcosa è dato appunto dall'Indulgenza. L'indulgenza di cui parliamo non consiste nel semplice 'chiudere gli occhi' sui difetti altrui: i difetti si vedono bene, solo che si 'indulge' ad essi, cioè si 'concede' il perdono che implica anche il desiderio dell'emendazione altrui, perché la persona non rimanga priva di quel bene morale che le deriva dal correggersi del difetto. E fino a qual punto si deve usare indulgenza? La risposta ce la da il Signore dicendoci di perdonare ai fratelli non sette volte, ma «settanta volte sette», e cioè sempre.
L'indulgenza permette così di dimostrare l'amore nella sua squisita delicatezza in cui vi è davvero il meglio dell'anima e del cuore. Qui infatti l'amore non cerca se stesso, il proprio appagamento, la propria soddisfazione: cerca soltanto il vero bene della persona amata. Ed è un amore profondamente attivo, perché esso opera veramente, cioè 'dona': dona il perdono e dona anche la fiducia alla persona cui indulge. Usare indulgenza e amare una creatura difettosa richiede grande forza di virtù. Poiché oltre a una generosità grande, che fa passare sopra se stessi, si esige qui una pazienza fiduciosa, che sa attendere, senza stancarsi mai» (R. BESSERO BEITI, La sapienza del cuore. La presenza interiore dello Spirito, Roma 1986,64-66).