«Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.» (2Ts 3,7-12)
«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta … Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno … sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». (Lc 21, 5-19)
Siamo ormai prossimi alla fine dell’anno liturgico e la Parola di questa domenica ci invita a guardare la realtà presente della nostra vita avendo come orizzonte le “realtà ultime”. Non dobbiamo, tuttavia, preoccuparci tanto di “quando” verrà il giorno del Signore, ma vivere ogni giorno in modo da essere trovati pronti. Gesù, infatti, ci mette in guardia dal cercare di conoscere il “quando”, dall’andare dietro a visioni e profezie millenaristiche, dai “falsi profeti” che per guadagno ci predicono il futuro. Il nostro futuro lo costruiamo ogni giorno collaborando al progetto d’amore che il Padre ha per noi (o, per nostra rovina, discostandoci da esso). Cercare di conoscere/controllare il futuro con la magia è una grave mancanza di Fede; è incompatibile con il dirsi cristiani.
Nella prima lettura, il messaggio del profeta Malachia assume toni minacciosi per tutti coloro che con superbia non tengono conto del giudizio di Dio e commettono ogni sorta di ingiustizia. Verrà il giorno del Signore e costoro, che si pensavano al di sopra di ogni giudizio, dovranno rendere conto della loro vita. Per coloro, invece, che riconoscono la Signoria di Dio sulla loro vita e vivono protesi verso il suo Regno, quel giorno verrà come il compimento della loro Speranza.
È a questo giorno che si riferisce Gesù invitando i suoi a relativizzare le realtà terrene. È costante per l’uomo la tentazione di “farsi da se”, di idolatrare il proprio lavoro quasi che esso debba dargli la Vita. Gesù, però, ci ricorda che la nostra Vita (la nostra salvezza) non dipende da ciò che siamo capaci di realizzare: passa la scena di questo mondo e non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. Ciò che conta, quindi, non è tanto ciò che abbiamo realizzato, ma il motivo per cui lo abbiamo realizzato, l’orientamento che abbiamo dato alla nostra vita, l’Amore che abbiamo espresso con la nostra opera. Qui, infatti , anche “la grazia di lavorare”, usando l’espressione di S. Francesco, trova la sua giusta collocazione come collaborazione all’opera creatrice di Dio e condizione in cui giungere alla piena realizzazione della nostra vita: la santità (cfr. Gaudium et Spes 67 e Lumen Gentium 41).
In questa prospettiva trova posto anche la persecuzione. Una conseguenza inevitabile se ci facciamo testimoni della logica evangelica, una logica diversa da quella del mondo e che il mondo non può accogliere.
Alla tentazione di salvarsi la vita con il proprio lavoro e con i beni di questo mondo (una tentazione attualissima), San Paolo, nella seconda lettura, ne affianca una opposta: la tentazione di non lavorare e di attendere passivamente il giorno del Signore. A Tessalonica, probabilmente, la comunità cristiana, o alcuni suoi membri, era caduta in questo inganno. L’Apostolo, prima con il suo esempio e poi con il suo insegnamento, ribadisce la dignità, il senso e la necessità del lavoro. Liberi dalla "paura del futuro" perché confortati dalla speranza certa che nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto, siamo chiamati a collaborare con il nostro lavoro a rendere il mondo sempre più il Regno di Dio.
Fra Marco.