«Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, … Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti» (Gal 1,11-19)
«… il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.» (Lc 7,11-17)
In questa decima domenica del TO la Parola di Dio ci presenta dei “casi disperati” che si risolvono per l’intervento dell’amore misericordioso di Dio. L’incontro con la morte (prima lettura e Vangelo) e il passaggio dall’errore alla Verità (seconda lettura).
Sia nella prima lettura che nel Vangelo, infatti, siamo messi dinanzi l’irreparabilità della morte. In entrambi i casi la morte del figlio di una vedova che si vede privare di tutto ciò che le rimane sia a livello affettivo, sia a livello economico: non essendo le donne titolari di nulla al tempo di Gesù, perdendo il marito e il figlio, perdevano ogni diritto sui beni con cui fino ad allora si erano sostentate.
Dinanzi questa situazione di dolore, il Signore non resta insensibile; al contrario, “fu preso da grande compassione”. Il testo usa qui un verbo che ha a che fare con la “viscere materne”: la compassione è qualcosa che prende a livello viscerale, fisico. È da questa compassione che nasce la misericordia e, quindi, l’intervento salvifico di Gesù.
Il Vangelo ci descrive i tre momenti dell’intervento. Il primo è l’ingiunzione alla madre in lutto: «Non piangere!». Al di là di ciò che esso significa nell’economia del brano (Gesù sta per intervenire), vorrei sottolineare ciò che questo comando può significare per noi. Troppo spesso, forse, ci lasciamo prendere dalla disperazione, dall’autocommiserazione, e ci concentriamo solo sul “negativo”: siamo sempre pronti a lamentarci per ciò che non va come vorremmo, per ciò che non abbiamo; e ciò ci distrae da ciò che invece abbiamo e dai doni che riceviamo. Il Vangelo di oggi si apre infatti con “due cortei”: il corteo della Vita (Gesù con il suo seguito) e il corteo della morte (la madre e il feretro). È quest’ultimo, però, a calamitare l’attenzione. Oggi Gesù chiede a ciascuno di noi di “non piangere”, di non lasciare che la tristezza ci rubi la speranza, ci faccia dimenticare l’onnipotenza dell’amore misericordioso di Dio.
Il secondo momento dell’intervento si ha quando Gesù tocca la bara. Gesù si lascia toccare dal dolore di questa donna e non ha paura di sfidare le convenzioni sociali e cultuali (venire a contatto con la morte rendeva impuri per il culto): partecipa con tutto il suo essere, anche con la sua corporeità, alla rivitalizzazione di questo ragazzo. Insieme ai Padri della chiesa (in particolare S. Cirillo d’Alessandria), vedo in questo gesto la sottolineatura dell’importanza della corporeità, della “fisicità” dell’incontro con Cristo per la nostra salvezza: Gesù, insieme alla Sua Parola, ci ha lasciato il Suo Corpo e il Suo Sangue per l’incontro salvifico con Lui.
Il terzo ed ultimo momento è il comando: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». È il verbo della resurrezione. Gesù è venuto perché abbiamo la Vita e l’abbiamo in abbondanza (Cfr. Gv 10,10), ci invita quindi a lasciare le nostre strade di morte, ad uscire dai sepolcri in cui la tristezza e il peccato vogliono relegarci. Ascoltiamo la Sua Parola, accostiamoci al Suo Corpo e al Suo Sangue, perché possiamo alzarci e vivere la Vita da risorti cominciata in noi con il Battesimo.
Fr. Marco