«L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione». (Ap 5, 11-14)
«Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». […] Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». (Gv 21, 1-19)
In questa terza domenica di pasqua la Parola di Dio ci presenta il Risorto che si china sulla debolezza dei suoi: nell’esperienza del fallimento, e della nostra incapacità e debolezza, siamo invitati a non scoraggiarci, ma a confidare nella grandezza del Signore capace di compiere grandi cose a partire dalla nostra pochezza.
La prima scena, infatti, si apre con l’ennesima notte in cui i discepoli, andati a pescare, “non presero nulla”. Solo l’apparizione del Risorto e l’obbedienza alla Sua Parola garantiscono un risultato insperato e sovrabbondante. È facile intuire che, dietro l’immagine della pesca, l’evangelista Giovanni sta presentando le difficoltà dei missionari: scoprono la loro inadeguatezza e incapacità, ma fanno anche l’esperienza dell’assistenza del Signore che li accompagna.
Nella seconda scena, Gesù ha già preparato da mangiare per i suoi, ma chiede ugualmente ai discepoli di portare il frutto della loro pesca. È il Signore a preparare a noi il banchetto della vita, senza di Lui non avremmo “nulla da mangiare”, ma vuole comunque la nostra collaborazione. Siamo, quindi, chiamati ad accostarci alla mensa eucaristica portando la nostra vita in offerta perché, unita a quella di Gesù, possa essere mensa di salvezza per il mondo intero. È quello che il sacerdote ci invita a fare prima della preghiera offertoriale: «Pregate, fratelli e sorelle, perché portando all’altare la gioia e la fatica di ogni giorno, ci disponiamo a offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente.»
Nella terza scena, infine, assistiamo al dialogo tra Gesù e Pietro: la triplice professione d’amore che richiama e ripara al triplice rinnegamento e fonda la missione di pascere il gregge. I verbi greci usati sono infatti agapao e fileo: il primo (agapao) indica l’amore “allocentrico”, che sposta il proprio centro sull’amato, che si china sull’amato, un amore di donazione che non è condizionato dalla reciprocità (la reciprocità è sempre sperata/desiderata dall’amore, ma qui non è la condizione); il verbo fileo, invece, indica l’amore in cui il soggetto, mantenendo il proprio centro in sé, porta nella sua intimità l’amato; è un amore più condizionato dalla reciprocità e in cui è ancora presente la ricerca di sé.
Nel dialogo tra Gesù e Pietro, le prime due volte il Signore usa agapao (“mi ami?”) e Pietro risponde con fileo (“ti voglio bene/ti sono amico”). Alla terza volta, Gesù, quasi a chinarsi sulla debolezza di Pietro, usa anch’egli fileo. Gesù chiede a Pietro un amore capace di donarsi gratuitamente, di dimenticarsi di se … ma Pietro ha già fatto esperienza della propria debolezza e non si sbilancia: è capace di accoglierlo nella propria intimità, ma non è capace di espropriarsi ed ha bisogno di sentire forte la Sua presenza e le Sue consolazioni. Proprio fondandosi su questa disponibilità ad amare e sulla consapevolezza della propria debolezza, Gesù affida a Pietro il compito di pascere il suo gregge: lui conosce la debolezza umana e la potenza di Dio, per questo può guidare, confortare e nutrire i suoi fratelli.
La debolezza umana, però non è ostacolo alla grandezza di Dio: nella prima lettura, infatti, abbiamo letto di come, dopo la Pentecoste, Pietro e gli apostoli non cercano più se stessi, ma anzi sono lieti di soffrire per amore di Gesù.
Fra Marco