A questo invito alla conversione fa eco la prima lettura: «Ritornate a me con tutto il cuore… laceratevi il cuore e non le vesti» (Gl 2,12) “Ritornate”, in ebraico Shub, è, infatti, il verbo della conversione: veniamo invitati a cambiare strada, a tornare sui nostri passi, ad abbandonare le vie del peccato per tornare sulle strade del Signore. La necessità del ritorno è data dal fatto che le strade che abbiamo intrapreso portano lontano dalla Vita.
Ciò risulta più chiaro se ci fermiamo a riflettere sulla realtà del peccato come ce la presenta la Parola di Dio: il termine ebraico che traduciamo peccato significa “mancare il bersaglio”, ma anche “sbagliare direzione”; lo stesso termine che indica i peccatori, infatti, indica pure gli smarriti: coloro che avendo abbandonato le piste carovaniere, che vanno da un’oasi all’altra nel deserto, si sono persi e sono destinati a morire di sete. Da qui l’impellente necessità di tornare sui propri passi, di convertirsi, per seguire la via della Vita, la sola che può portarci alla Fonte d’acqua viva. Tale conversione va fatta “con tutto il cuore”, deve cioè coinvolgere tutta la nostra realtà: troppo spesso viviamo nel compromesso e ci ritroviamo frammentati in molteplici cose; proviamo a seguire più direzioni contemporaneamente cambiando continuamente direzione; siamo abbagliati da molteplici attrattive e in tal modo ci smarriamo. Oggi il Signore ci chiede di unificare tutta la nostra vita ponendola sotto la Sua Signoria. Perché tale conversione sia autentica e ci conduca sulle vie della Vita, essa deve essere interiore: libera dalla ricerca del “proprio Io”, deve ricercare solamente la gloria di Dio.
È quello cui ci invita il Vangelo di oggi: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro …»(Mt 6,1). Nel riproporre i tre pilastri della spiritualità giudaica, Gesù, istruisce i suoi discepoli sul modo in cui praticarli perché portino frutti duraturi. Elemosina, preghiera e digiuno, infatti, trovano il loro valore più alto nel decentrare colui che le pratica.
Nel praticare l’elemosina sono portato ad accorgermi del bisogno del fratello e a dargli, se non la precedenza, almeno la stessa attenzione che darei al mio bisogno. Praticando l’elemosina, inoltre, affermo con forza e fattivamente la convinzione che non saranno le cose che accumulo a darmi quella pienezza di vita che desidero; un’affermazione che è al contempo una liberazione dalla schiavitù delle cose.
La preghiera mi porta a decentrarmi perché mi fa riconoscere che non sono solo nella quotidiana fatica, ma ho un Padre che mi ama e che provvede a me; a Lui posso quindi chiedere aiuto e conforto, Lui devo ringraziare per ciò che mi concede ogni giorno e in Lui devo porre la mia filiale fiducia.
Il digiuno, infine, mi decentra liberandomi dalle mie “passioni”: esercitandomi a dire no alla necessità del cibo, mi fortifico per resistere alla spinta delle mie passioni e imparo, passo dopo passo, a rinnegare me stesso mettendo Dio al primo posto.
Queste opere di giustizia, questi esercizi penitenziali, tuttavia, perdono ogni valore se sono fatti al fine di essere ammirati: non ottengono più lo scopo di decentrarmi, ma mi centrano sempre più in me stesso nutrendo il mio Io e la mia Immagine.
Viviamo bene questo “momento favorevole”, l’oggi della salvezza (2 Cor. 6,2), e torniamo al Signore Dio nostro «misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore» (Gl 2,13)
Buona Quaresima, fra Marco