«Voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.» (1Ts 5,1-6)
« … Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse …”» (Mt 25,14-30)
In questa XXXIII domenica del TO, la Parola, essendo ormai prossima la fine dell’anno liturgico, ci parla delle cose ultime e della necessità di non farci trovare impreparati. Gesù, infatti, sta rispondendo alla domanda che i discepoli gli hanno posto (in Mt 24,3) riguardo al “quando” della venuta del Figlio dell’uomo. Anche questa terza parabola, come la precedente (le vergini sagge e quelle stolte), ribadisce che non ci è dato di sapere il quando. Lo specifico di questa parabola, è, però, l’esortazione ad usare bene del tempo presente e delle occasioni che la vita ci offre. Il Maestro vuole insegnarci che, in fin dei conti, è per noi un bene non conoscere il “giorno e l’ora” perché in tal modo possiamo vivere pienamente il nostro presente.
La parabola, inoltre, ci invita all’intraprendenza mossa dall’amore: ciò che il Signore vuole da noi è “l’obbedienza creativa” dei figli che, per amore del Padre, non si risparmiano e fanno ciò che sanno può fargli piacere senza bisogno che glielo si chieda. È questo il “timor di Dio” di cui si parla nella prima lettura: il desiderio di compiacere il nostro Padre e il timore di dispiacerlo. E cosa può dispiacere di più un padre che vedere i figli che sprecano la loro vita?
Siamo chiamati quindi a concentrarci sulla relazione di fiducia che il Padrone vuole instaurare con i servi della parabola: affida loro i suoi beni perché li amministrino creativamente, perché li facciano fruttare per poi introdurli “nella Sua gioia”. È questo che il Padre fa con ciascuno di noi: ci consegna la vita, la nostra storia, il nostro tempo, le occasioni della vita … perché noi facciamo della nostra vita un capolavoro!
Un’altra cosa su cui vorrei fermare l’attenzione, è la differenza nei beni consegnati ai servi (secondo le loro capacità) e di conseguenza la differenza nel rendimento consegnato al Padrone: ciò che conta non è la quantità del risultato, ma l’atteggiamento di fiduciosa intraprendenza che i servi hanno dimostrato, il fatto che i talenti siano stati trafficati.
L’ultimo servo, quindi, viene rimproverato e punito non per la scarsezza del risultato, ma per l’immagine distorta e ingiusta che si è costruito del suo Padrone; per essersi fatto bloccare dalla paura. Si trincera dietro una “rigida” giustizia (“ecco ciò che è tuo”), che poco ha a che fare con l’amore, e si comporta ingiustamente nei confronti del suo Padrone attribuendogli un’immagine distorta. La sua eccessiva e “vigliacca” paura lo paralizza e fa sì che i beni affidatigli non fruttifichino: la sua vita è stata sprecata. Il Padrone, quindi, non fa che prenderne atto e dare seguito a ciò che lui ha già determinato: lo tratta a partire dall’immagine che il servo si era costruito di lui e rende palese lo spreco della sua vita.
Nella seconda lettura S. Paolo ci ammonisce: noi “non siamo nelle tenebre”, ma sappiamo Chi è il Nostro Signore e ciò che chiede a ciascuno di noi. Non lasciamoci, dunque sorprendere, ma facciamo tesoro del tempo presente e, mettendo al bando la paura, agiamo con una intraprendenza fiduciosa nell’amore del Padre. Ricordiamo: chi vuol salvare la vita, la perde!
Fra Marco.